Essere o non essere Charlie

(miti d'oggi)

to-be-or-not-charlie-180x180La parabola social dello slogan #JESUISCHARLIE in Italia, prima inghirlandato d’amore universale per la libertà d’espressione e adesso strappato dalle foto profilo e seppellito a pestoni rabbiosi, dovrebbe insegnare qualcosa.

È difficile trovare una demo migliore della Grande Leggerezza digital dal like facile, così nuovo secolo, con cui ci si affretta ad appiccicarsi in fronte un distintivo qualunque purché emotivamente carico. Che poi è la stessa che pascola per anni e anni le bufale del sangue per la bambina malata. Che poi è la stessa che dismette amici da Facebook sull’onda di contrarietà da nulla. Che in fondo è parente di quella con cui si compra in massa la peggiore crema spalmabile alla nocciola che ci sia sul mercato, una manovrabilità fatta di pubblicità, disinformazione e impulsività che ha fatto la fortuna della famiglia Ferrero, il cui defunto capostipite viene celebrato come un eroe. Non certo il mio eroe.

Nemmeno Charlie Hebdo è mai stato il mio eroe. Ho compianto i suoi morti, ma non mi sono mai identificato in lui perché non mi piacciono i suoi metodi, non li condivido, penso che scadano troppo spesso in una forma di violenza che non porta niente di buono. La vignetta sul “sisma all’italiana”, con la sua rozza insalata di spaghetti e mafia, talmente futile e fuori luogo da dissolvere qualunque buon proposito di denuncia ci fosse dietro, è l’ultima di una lunga serie di vignette disgustose di Charlie. Basta scorrere il repertorio per vedere che non hanno risparmiato neanche la carneficina camionata di Nizza (quindi lo sciovinismo non c’entra). Proclamare “je suis Charlie” implica conoscere bene Charlie e accettare totalmente questi suoi metodi. Altrimenti non si può dire. Altrimenti “je suis Charlie” è come quando mia figlia gioca e dice “io sono Biancaneve, tu sei Aurora”. Altrimenti, per gli adulti, è dichiarare il falso. Sarà una menzogna colposa, per superficialità, nondimeno è una menzogna grave, dato che intorbida l’acqua alla fonte da cui beviamo, riducendo il principio della libertà d’espressione a una pantomima.

I tanti #jesuischarlie cancellati oggi dimostrano che la libertà d’espressione c’entrava poco con quella mobilitazione di massa. Del resto che c’entrasse poco si era già capito il 3 maggio 2015 quando, qualche mese dopo l’assalto alla redazione, si era tenuta a Garland, Texas, una gara di vignette satiriche su Maometto starring Geert Wilders, il leader xenofobo della estrema destra olandese: il suo discorso non faceva altro che sparare un mucchio di stupidaggini ignoranti sull’Islam, così all’ingrosso, osannando per contro alla «nostra superiorità» e alla «nostra libertà di parola». Una difesa della libertà di espressione dunque in gran parte opportunista, come capita spesso: metà copertura civile per il razzismo, metà nobile scusa per dire e fare quel cazzo che ci pare. Ma lo sanno anche i bambini che la libertà civile non è dire e fare quel cazzo che ci pare. E lo sanno anche i bambini che violenza chiama violenza. Perciò non c’è da stupirsi che un atto così apertamente ostile e fazioso come la gara di Garland si sia concluso con un’altra sparatoria e altri due morti. Gli unici al mondo a cui questo tipo di esito può tornare utile sono Geert Wilders e gli altri burattinai di paure come lui. Per tutti noi è solo una sconfitta amara. Con l’aggravante dalla prevedibilità.

Il compito della satira, si è detto spesso in questi giorni, è far riflettere. Va bene. E proprio perché ha da onorare un compito così arduo la satira deve agire con senno e responsabilità alti alti sopra alla mediocrità di queste vignette. Del resto pure lo psicologo più scalcagnato può confermare che se veramente si vuole aiutare qualcuno a pensare oltre i limiti del proprio intoccabile steccato, a fargliene percepire le ristrettezze, a smascherare le sue negazioni, insomma a farlo riflettere sulla sua condizione, come la satira si propone, aggredire frontalmente e biecamente nei punti delicati è una tattica fallimentare: provocherà senz’altro quelle reazioni istintive di difesa che impediscono di riflettere, quindi finirà per riconfermare i preconcetti e acuire le divisioni tra vittime e osservatori. Violenza chiama violenza. Tutto il contrario di quello che ci serve.

Quanto a noi, prima di scrivere il prossimo “je suis Charlie” forse sarebbe utile contare fino a due. Uno: soppesare il prodotto con obiettività e chiederci se davvero raggiunge il suo scopo e fa un servizio utile alla società, al di là di qualche infatuazione di ordine intellettuale. Due: per essere onesti dovremmo testarla sul personale, sostituire ai soggetti nella vignetta le persone più care che abbiamo, oppure noi stessi, e chiederci: sarei disposto ad accettarlo? Se la risposta è un sincero sì, allora je suis Charlie. Se la risposta è no, allora dopo aver pianto i morti lasciamo che anche altri si godano la loro dose di rispetto.