I paradossi del benessere

(daily life, economia)

In prima pagina del Sole24ore di giovedì scorso 29 maggio, c’è un fondo che lancia il Festival dell’Economia di Trento tenuto in questi giorni sul tema “mercato e democrazia”. Carlo Carboni vi si pone a voce alta una delle Grandi Questioni, a nome della comunità tutta degli economisti:

«Perché i cittadini dei maggiori Stati europei, nonostante siano tra i più ricchi al mondo e con maggiore copertura dei loro diritti, sono così disincantati verso le proprie democrazie? Perché il benessere li rende sempre meno soddisfatti del funzionamento delle istituzioni democratiche?»

Stupefacente davvero. Eh già, come mai? Tutto questo benessere, e poi la gente sta male. Assurdo.

festival dello scoiattoloCarboni – sempre a nome di quella comunità di scienziati, di cui porta voce in qualità di professore di Sociologia economica – descrive lo strano caso come un «malessere democratico», una degenerazione psichica collettiva che andrebbe curata con della «psicanalisi sociale». Il tono accorato è quello dell’onesto genitore di un figlio degenere, e fa affiorare il ritratto di qualche centinaio di milioni di bimbi viziati che nel loro enorme kindergarten hanno tutti i giocattoli del mondo, eppure insistono a lamentarsi, a far capricci, a picchiare la testa contro il muro, incomprensibilmente. Un comportamento che definisce «paradossale», a ribadire quanto già anticipato dall’occhiello che classificava il tema in un noto scaffale di rogne resistenti: «Paradossi europei».

Quando appare la parola paradosso mi frego sempre le mani, e rispondo bingo! come nei film americani quando trovano il chilo di coca nel doppiofondo dell’armadio. Il paradosso è un allarme inconfondibile che dice: quest’uomo ha imparato a spiegarsi il mondo in un modo parziale e inesatto, ora qui qualche nodo è venuto al pettine ma lui non può accettarlo, perciò rivolta la frittata e pretende che il problema sia là fuori, nel mondo, in una realtà fatta male. Come se fosse la realtà a doversi adattare alla teoria, e non viceversa. Paradossale, direi.

In altre parole: un paradosso dice che c’è un inghippo, una contraddizione davanti a noi. Ma basta un briciolo di lealtà per riconoscere che l’inghippo non può essere nella realtà osservata, che è semplicemente quello che è, bensì nel modo in cui sappiamo pensarla, in cui l’abbiamo ristretta in una teoria. Castelli di teorie impressioniste e approssimative, titoli ereditari e oracoli mai discussi che diventano luoghi comuni e abitudini invincibili: ecco la conoscenza, per lo più. In barba a tutto questo grigio e serio sapere, la realtà versicolore che corre per fatti suoi e presenta ogni tanto salati conti.

Gli economisti producono una quota notevole di questa conoscenza deformante, poiché il teatro della vita sociale e dello scambio di risorse è infinitamente complesso rispetto ai modellini logici con cui lo studiamo. Il loro intervento ne fa gallerie di bozzetti stilizzati, dei giochi grotteschi e ridicoli, lontani dalla sostanza che muove gli esseri umani quanto un cavallo a dondolo da uno stallone arabo. Tuttavia l’inerzia e il prestigio accademici li accreditano come stato ufficiale del mondo. Forte di interi corpora di false “leggi naturali” così malnate, l’economia da sempre si auto-premia con un posticcio statuto di scienza che non ha e non potrebbe mai avere. Quelle teorie prese per buone ramificano poi in altre teorie e infine diventano, purtroppo, scelte politiche. È qui che si rivela il pericolo e il vero danno civile: per questa via attiva la deformazione della conoscenza viene messa in pratica e deforma a sua volta la storia di individui, di Paesi, di popoli interi, del pianeta e delle sue risorse.

Qual è l’inghippo vero dietro al paradosso di Carboni? L’economia lavora con modelli semplificati di realtà, “come se” stesse studiando questa nella sua complessità. I suoi modelli catturano gli aspetti più semplici, quelli facili da ridurre a formule logiche e matematiche, ma lasciano fuori gli aspetti più irriducibili agli schemi, i più imprevedibili, i meno conoscibili, insomma i fattori cruciali. Sono quelli più tipicamente umani agli occhi non velati di poeti e artisti, ma a giudizio delle persone comuni. Le conclusioni derivate dal modellino soffrono quindi di un errore operativo nascosto e incalcolabile. Quest’errore col tempo si somma agli altri simili, si amplifica sottotraccia, perfonde e impregna tutto di una schiumetta artificiale, finché il muro dietro l’argentea pittura delle cifre, al punto critico, marcisce e crolla. Spuntano le sorprese: il dramma della follia, gli eserciti di kamikaze, la nube tossica, la valanga di fango, la tenace montagna di rifiuti, la crisi finanziaria. Lo strano caso del malessere del benessere.

L’economista integrato non può dir questo, è ovvio, e forse neanche pensarlo. Allora racconta altro; ad esempio come «le ansie di crescita e sviluppo, che caratterizzarono il dopoguerra, si trasformarono gradualmente in angosce postmaterialiste, in ansie di espressione individuale personale»: un classico discorso didattico che sa impiegare qua e là espressioni sufficientemente vaghe e auliche – “angosce postmaterialiste” – da aggirare il fuoco facendo comunque la sua figura con una bella danza. A un momento sembra avvicinarsi al centro dei problemi concreti quando dice che per questa pista «poco studiata» si potrebbe arrivare forse a capire «che il PIL pro capite non sia tutto, o meglio che sia una condizione necessaria ma non sufficiente per assicurare la qualità della democrazia». Magari! No, torna subito sulla retta via e ammette che «oltre una certa soglia, non si spiega perché i cittadini di Stati ricchi non siano soddisfatti delle loro istituzioni democratiche». Non si spiegherà mai se non si fa quel salto appena accennato. Parla di «conferma di trend avviati negli Settanta», come la crisi di fiducia dei cittadini verso la politica e di partecipazione sia ai partiti che al voto, come fosse il trend la causa di certi comportamenti, e non al contrario il loro effetto cumulativo visto attraverso le nostre lenti grossolane e i nostri concetti banali. Ecco di nuovo l’inversione paradossale per cui il teorico immagina che la realtà debba seguire la teoria, e non viceversa.

Va notata la presenza di alcune tipiche parole-trabocchetto che a parte pochissimi illustri autori si ritrovano ovunque in ambito economico: benessere; partecipazione; democrazia; competitività. Queste parole, ribadite con la martellante ostinazione del mantra scacciaguai, sono date lì sempre per scontate, nonostante nascondano universi interi di dilemmi. Che cos’è il benessere? Siamo sicuri di essere riusciti a darne un modello realistico su cui fare conto per prendere provvedimenti validi? Siamo sicuri che le condizioni di vita altamente artificiali dei nostri Paesi e i criteri quantitativi ed efficientistici dell’economia di mercato siano compatibili con un benessere autentico? E la competitività non è concetto un po’ antiquato e limitato? Possibile che non si possa parlare di futuro senza queste stolide tasse della competitività e della crescita? Siamo sicuri che non esista visione in grado di concepire un processo economico – non una crescita: qualcosa di più ampiamente inteso – senza questa variante sintetica residuale della lotta per la sopravvivenza?

La verità è che la teoria economica ancora dominante non può fare a meno di queste parole d’ordine: è lì, negli assiomi indiscussi, che cela tutta la sua ignoranza come la coca nel doppiofondo dell’armadio. Se arriva il dubbio si fa un tiro, e riparte di slancio. Ma la sua resta una visuale angusta e vetusta: non riesce a contemplare alternative, mentre nell’impostazione conserva ancora le tracce delle sue origini in epoche in cui la vita di molti non valeva nulla, e le risorse erano considerate illimitate. Quei tempi, ora, sono alla fine.

Un pensiero agiografico che tradizionalmente accompagna quella teoria racconta la favola secondo cui l’economia liberista sarebbe portatrice naturale di libertà civili. Paul Krugman, una delle figure principali dello star system internazionale dell’economia e ospite d’onore al Festival, l’ha smentita lì al primo giorno dicendo chiaro e tondo che non ci sono prove di alcuna relazione tra economia di mercato e democrazia: la prima non porta necessariamente la seconda, anzi è perfettamente compatibile con Stati autoritari. Una studentessa intervistata al termine dell’intervento di Krugman mi è sembrata la migliore testimonianza possibile dello scarto teoria-pratica di cui soffre la disciplina: «In realtà», dice un poco allibita, «è esattamente l’opposto di quello che si impara nelle aule universitarie. Per anni e anni ci hanno insegnato che economia e democrazia vanno di pari passo…» Un’altra bimba squilibrata, evidentemente, e un altro meraviglioso paradosso davanti al quale incantarsi.