La dannazione del PIL

(disillusionismo, economia)

Il Prodotto Interno Lordo è un numero che somma tutte le transazioni in denaro di un Paese. L’economia standard assume – senza alcuna dimostrazione – che questo PIL sia una misura sensata della ricchezza e del benessere di una società di esseri umani. La crescita del PIL dovrebbe significare quindi un aumento della sua ricchezza e del suo benessere. Dato questo ruolo, il PIL è la pietra d’angolo dell’intera economia standard, il punto di riferimento fondamentale di ogni criterio di giudizio. Dal PIL si derivano il reddito pro-capite, gli indicatori di bilancio che guidano le politiche economiche, le definizioni stesse di “povertà” e “ricchezza” e “recessione”, con le loro conseguenze psicologiche. Si capisce allora quale enorme potere abbia quel numero sulla vita di noi tutti.

Il problema è che il PIL comprende anche le transazioni derivanti da crimini, armamenti, guerre, tragedie, malattie e catastrofi, e ne fa un fascio unico col resto. Inoltre il PIL non contempla gli scambi non monetari: il gratis, il no profit, il volontariato, l’economia familiare, il baratto, tutti i comportamenti che provengono dall’istinto altruistico-sociale, cioè quello che possiamo considerare il più proprio dell’uomo e non della bestia, per il PIL non esistono affatto. Non essendo riducibili a numeri per vie semplici, vengono esclusi col metodo di Galileo: «difalcare gl’impedimenti».

Nell’ottica del PIL, per la sua superficiale aritmetica, una riduzione di tasse è equivalente a un aumento della spesa pubblica, nonostante i due provvedimenti abbiano impatti ben diversi sui cittadini. Nell’ottica del PIL, gli installatori di porte blindate fanno bene a mettersi d’accordo coi ladri che le scassineranno, perché ne deriva un virtuoso circolo di spese e quindi un aumento del PIL. Nell’ottica del PIL, è bene che le madri e i padri lascino i loro piccoli al più presto per tornare al lavoro, pagando a professionisti i surrogati delle loro insostituibili cure, perché così fatturano sia loro che i puericoltori e il PIL cresce. Nell’ottica del PIL, è un bene che un chirurgo amputi a un paziente una gamba sana, è un bene che si vendano pistole e mine antiuomo, è un bene che la gente litighi, divorzi, si ammazzi. È l’ottica del PIL, la sua stessa formulazione, che in una sciagura vede un’opportunità economica, mettendo sullo stesso piano avvoltoi e angeli: ogni differenza tra loro sparisce nel suo modellino di criminale approssimazione. Purché aumenti la circolazione di fatture, le calamità sono ok: perciò nell’ottica del PIL chi specula sui pensionati, sui malati e sui terremotati è un virtuoso, e ci resta male se gli capita lo scandalo e l’arresto. La morale del PIL mette a nudo il cuore di pietra della nostra economia standard, una teoria sociale selvaggia fatta per fiancheggiare la prepotenza, sfacciatamente non sostenibile, la quale aizza in cascata tutte le altre teorie e politiche e abusi e stili di vita insostenibili.

Dato che le catastrofi fanno crescere il PIL, chi segue il PIL è catastrofe-dipendente. Solo se crepano mucchi di operai bruciati e schiacciati forse si fa qualcosa per la sicurezza sul lavoro; solo se duecentomila animelle vengono spazzate via da un’onda forse si fa qualcosa per una rete di allarme anti-tsunami; solo se un terremoto sbriciola i muri di rena di una ridente cittadina e seppellisce i suoi giovani forse si fa qualcosa per contenere le truffe dei costruttori; solo se un terremoto finanziario sbriciola i mutui casa, i risparmi e le pensioni, forse si fa qualcosa per arginare le truffe bancarie; solo se una centrale nucleare sfondata dà il via a un fallout globale, forse si ripensa al nucleare; solo se milioni di persone marciano contro i governi forse si ripensa alla cosiddetta austerità. Forse. Ma anche no. Forse c’è bisogno che arrivi il peggio ancora. E il peggio arriva, possiamo starne certi.

È l’ottica del PIL a pretendere da noi il consumo forzato, che è la nostra rovina, perché il “bene” del Paese aumenta se cresce il PIL, e il PIL cresce solo se crescono i consumi. Come parte del postulato del PIL, si assume che la crescita del PIL comporti sia un aumento del benessere che dell’occupazione. La storia ha ormai acclarato senza dubbi che queste due tesi sono false e infondate, ma nonostante questo restano in vigore. A tale regime di controllo psichico è arrivato l’assioma della crescita del PIL, che la parola ‘decrescita’ è censurata e al suo posto si usa un assurdo ossimoro: “crescita negativa”. Qualsiasi aspetto del presente e del futuro è valutato moralmente in base alla crescita, così come il tempo libero è misurabile in quanto in quanto non-lavoro, merce-equivalente. Nella crescita del PIL vedono ormai l’unica soluzione tanto il grande imprenditore quanto il segretario del sindacato, tanto il politico di centrodestra quanto quello di centrosinistra, con inquietante unanimità.

Graziato da un’ignoranza senza pietà, nonostante tutte le sue colpe e i suoi acciacchi, l’incurabile PIL se ne va in giro come un morto vivente a seminare il terrore, ancora il principale riferimento per le politiche economiche dei governi “avanzati”, come se niente fosse. Il che è davvero incredibile, a ricordare che già nel lontano 1968 Robert Kennedy in un celeberrimo discorso aveva puntato l’indice contro il PIL e lo aveva bollato come volgare deleterio illusionismo di cui disfarsi al più presto. Nessuno gli ha dato retta. Così negli ultimi 45 anni noi sudditi del PIL non abbiamo fatto che peggiorare le cose. Nemmeno le recenti evidenze secondo cui il benessere medio nei Paesi sviluppati è talmente basso che dovremmo invidiare i Masai e gli Amish, che vivono molto meglio di noi, riesce a smuovere il blocco mentale. Nemmeno i più curiosi paradossi: ad esempio che gli Stati Uniti a dispetto del loro PIL sono al 41° posto in graduatoria mondiale per la mortalità infantile. Nemmeno la epocale crisi economico-finanziaria che stiamo vivendo ce l’ha ancora fatta a mettere il PIL in difficoltà. E mentre vedo tante statue e icone dell’economia tradizionale sbriciolarsi tutt’intorno a me, mentre vedo Stati fino a poco tempo fa illuminati dalla gloria cadere nell’oscuro cono d’ombra del fallimento, della fame e della guerra civile, mentre vedo vecchi eroi trascinati giù dai piedistalli e presi a sassate, tuttavia l’impero del PIL resta in piedi e prosegue la sua opera distruttiva. «Occorre ribadire in tutte le sedi», ricorda Maurizio Pallante, «i rapporti di causa-effetto tra la crescita del PIL e l’esaurimento delle risorse non rinnovabili, l’incremento esponenziale delle varie forme di inquinamento, la progressiva devastazione degli ambienti naturali e storicamente antropizzati, la disoccupazione, le guerre, il degrado sociale».

Eppure le alternative non mancano. «Possiamo misurare la società in altri termini. Alcuni paesi misurano la soddisfazione. Se misurassimo il mondo in altri modi, l’accumulazione della ricchezza diventerebbe meno importante» osserva Bill McKibben. Pur essendo sempre numeri, indici come il GPI (Genuine Progress Indicator) e l’ ISEW (Index od Sustainable Economic Welfare) hanno l’accortezza di aggiustare il consumo in base alla distribuzione del reddito; di mettere il segno meno davanti ai costi degli incidenti, della difesa, del crimine, dell’inquinamento, dello sfruttamento di risorse non rinnovabili, del ripristino delle alterazioni, e sottrarli, non sommarli, al valore positivo di beni e servizi apportatori di benessere; di includere un criterio di sostenibilità, nel senso della capacità di mantenere nel futuro lo stesso livello di attività economica, il che rende impraticabile il nostro schema Ponzi generalizzato, la manbassa a spese dei posteri che nel mondo del PIL è prassi normale e diffusissima. La New Economics Foundation ha concepito e calcolato per 143 Paesi del mondo un Happy Planet Index, che valuta per ogni nazione la soddisfazione personale e l’aspettativa di vita in proporzione all’impronta ecologica derivata dal PIL pro capite, dalle emissioni di CO2 pro capite, dal livello di urbanizzazione e da altri indicatori. Nel controverso Regno del Bhutan al posto del PIL c’è la Felicità Interna Lorda, un set di indici che include la vitalità della comunità, l’uso del tempo, l’equilibrio emotivo, la spiritualità, i diritti umani, la fiducia, il sostegno sociale, la salute, oltre a economia, cultura, ambiente e buon governo.

Sono questi gli indicatori che servono oggi. Anche per accorgersi, prima di celebrare un apparente successo ottenuto in un certo settore, se non finisca per provocare un dànno maggiore altrove, o un martirio differito nel tempo. Il PIL invece asseconda a meraviglia la disgregazione, la sommatoria delle mission individuali scorrelate, e un futuro molto breve. Purtroppo rimpiazzare un sistema assiomatico così gigantesco, vincendo la sua inerzia di statusquo incrociati, sembra più difficile che spostare catene montuose, bruciare oceani, sommergere continenti.