La giacca di Michael Jackson

(cultura, miti d'oggi)

La vita di Michael Jackson, che riposi in pace, è stata senz’altro la dimostrazione più estrema del detto di Rilke: la fama è la somma di equivoci che si raccolgono intorno al nome di una persona.

Ero molto legato all’anima tenera di quella pianta, qualsiasi tronco  contorto le si fosse sviluppato poi intorno. La mia adolescenza è stata più bella con quella musica (avevo 13 anni quando è spuntato Thriller) e perciò è migliore anche tutto quello che ho avuto dopo: gli devo molto. Per questo vorrei celebrarlo riportando qui il pezzo che scrissi su lideologo il 2 marzo 2003, all’indomani di un velenoso documentario che aggiunse una decisiva dose di global confusion all’esistenza di un uomo semplicemente inimmaginabile. Per gli altri e per se stesso.

Ieri è andata in onda Living with Michael Jackson, la lunga intervista live di Martin Bashir che ha scatenato nel mondo una gazzarra di polemiche. Dopo averla marchiata a fuoco all’istante come “video shock”, l’Italia responsabile dei papà non ha potuto fare a meno di riservarle un serio dibattito per decidere se e quando trasmetterla. Risultato: adelante Pedro ma con juicio. Fascia tarda su Italia1, Studio Aperto preventivo con le debite istruzioni per l’uso come per una droga da assunzione controllata, bollino rosso rigorosamente anti-bimbi. Insomma, la solita isteria moralista da pseudo-X-rated.

È vero, si tratta di un video shock. Ma per ragioni completamente diverse da quelle accreditate, se non perfino opposte a queste che sono appunto le accuse del più borghese orrore: inadeguatezza al ruolo di padre, immaturità e disturbi psicoaffettivi, pederastia, e variazioni sul tema. Ne parlerò alla fine. Ora mi interessa approfondire la figura che ho visto emergere dal documentario.

Come un oggetto troppo grande e visibile, come un dolmen al centro della pianura che nei millenni non si può sottrarre più né al sole ne alla bufera sferzante, Michael Jackson raccoglie i pensieri residui di cui miliardi di persone non saprebbero cosa farsi. Interstizi di vita che ciascuno, nessuno escluso, gli dedica in misura diversa. Ad esempio, io da adolescente ho dedicato a Michael parecchio spazio interiore ricavandone una infinità di gioie estetiche e sociali che sono tra le più intense della mia vita. In seguito, l’uso del tempo si è spostato altrove; ma quei momenti restano una fonte eterna di benessere quando li ricordo o quando li rievoco riascoltando le canzoni dell’epoca, parlandone con gli amici cari che li condivisero con me. Mia madre, d’altro canto, pensa pochissimo a Michael Jackson. Altra gente ancora dedica a lui tutta la vita: c’è un tizio che dovunque va Michael lo segue, lo aspetta ballando in strada quasi meglio di lui. Per costoro quell’interstizio si estende all’intero tempo disponibile. Folli? Non saprei. Io ho altro da fare, ma loro li capisco. Perché no; dopotutto, tra gli innumerevoli scopi campati per aria che ci vengono suggeriti per le nostre esistenze, somigliare a Michael Jackson non è certo il più insensato. L’importante è quanto ti fa stare bene.

Ora, tutti questi pensieri dedicati a Michael Jackson da miliardi di persone sono carichi di sentimenti aleatori e confusi di attrazione e repulsione che si compongono come le frequenze di un suono complesso, un immenso starnazzare di trombe e trombette. Non mancano di convertirsi in gesti e parole, e dalla chiacchiera al bar fino al dibattito accademico in tv è sempre lo stesso starnazzare. Lo stesso che si è levato intorno a questo documentario. Il suo soggetto però si sottrae in continuazione al dibattito: perché si sottrae alla nostra familiare realtà. La vita quotidiana di Michael è una sequela ininterrotta di fenomeni eccezionali; un pregio del documentario è permetterci questa osservazione privilegiata, come assistere a un ciclone stando nella calma dell’occhio. La vita di Michael Jackson, vista da qui, è fatta solo di magie. Le cose si muovono intorno a lui come nello spettacolo di uno stregone. Punta il dito e dice “voglio questo questo e questo” e qualsiasi desiderio si avvera; fa un gesto di meno e grandi folle piangono disperate, un gesto di più e mezzo mondo storce la bocca. Non è sciocco stupirsi poi che nel giardino ha un intero lunapark? Ha già una vita magica, non è che vuole far finta di averne una mettendosi in casa le giostre.

Pensa a questa scena. Vai a comprare il latte e per tutta la strada migliaia di persone invasate ti saltano addosso strappandosi i capelli e strillando il tuo nome, ti impediscono il passo, ti implorano ciascuno uno sguardo o un tocco o un segno per sé. Poi arrivi dal lattaio, e quando gli dài retta invece del latte ti rifila le sue storie, dice che i suoi figli ti adorano – firmi gli ennesim cento pezzi di carta – e ti vorrebbe parlare a lungo della sua giovanile passione per la chitarra. Ripeti questa scena tutti i giorni, diciamo per trenta anni. Pensaci bene, ora, e dimmi se non ti sorge da qualche parte una sorda paura.

A dirla tutta, anche questa finzione del lattaio è senza senso: Michael Jackson non fa nulla che assomigli a scendere a prendere il latte. Siamo noi che proviamo a calare lui in un magro siparietto simile alle nostre abitudini, non viceversa: ma l’esperimento ci restituisce solo una vaga percezione di stravaganza e assurdità. È un limite che bisogna riconoscere: francamente, non abbiamo la benché minima idea delle concrete condizioni di vita quotidiana di Michael Jackson. Il video mostra qualcosa – una cucina, un divano, una passeggiata. Ma chi lo sa. Non è questo il punto; restiamo fuori.

Forse un modo di avvicinarsi al nocciolo della questione è esplorare Michael Jackson in qualità di incredibile macchina da soldi. Insieme a Bashir lo seguiamo attraverso ali di folla estemporanea dentro un centro commerciale, fino a un imbarazzante emporio hollywoodiano di sontuose e oscene cianfrusaglie: il suo negozio preferito, si dice. I prezzi sono al di fuori di ogni logica: decine e centinaia di migliaia di dollari a pezzo. Lui addita e compra quasi tutto ciò che luccica: massicci trespoli dorati, enormi quadri di soggetto mitologico, anfore e sarcofaghi. Il negoziante trasuda eccitazione e visibilmente fatica a restare in sé; interrogato, fa il professional-reticente sulle cifre. Vista la semplicità con cui spende miliardi in sciocchezze, Bashir commenta ironicamente, fingendosi osservatore imparziale, che Michael «farebbe la felicità di qualsiasi negoziante». E qui occorre aprire un po’ di più gli occhi e prendere un certo distacco dal buon Bashir, il nostro giornalista intermediario. Bashir ostenta uno sguardo semplice e innocente, a volte indignato, con cui noi tutti – spettatori benpensanti come lui – dovremmo identificarci. Ma Bashir è ingranaggio primario di quel mondo che fa di Michael Jackson una incredibile macchina da soldi, forse una delle più potenti al mondo. Difatti, le sue domande intime e pruriginose a Jackson (secondo questi manipolate e montate ad arte per screditarlo – il che è probabile: dal video è chiaro che Bashir ci itiene più a mascherarsi da popolino che ad essere amico di Michael) sono state vendute per 4 milioni di dollari alla ABC. Ricalcando le parole di Bashir, direi che Michael Jackson farebbe la felicità non solo di ogni negoziante, ma anche di ogni giornalista… non è così Bashir? Colpiva viceversa la condiscendenza con cui Michael rispondeva alle domande spesso veramente moleste e bacchettone di Bashir. Io a un certo punto lo avrei mandato a cagare. Invece l’alieno se ne stava lì docile a respirare l’acre fumarola del micragnoso benpensante, a sorbirsi schiaffetti paternali e ganascini, a discolparsi. Non mi sembra che Bashir abbia ragionato più di tanto sul significato umano di questa disponibilità, che mi sembra di una dolcezza interessante.

Qualcuno dice che Jackson si è prestato per dare una spintarella a vendite stagnanti? Permettetemi di ridere a crepapelle. OK, fatto. È vero che poi è successo realmente: dopo la proiezione britannica, i Virgin Megastores hanno comunicato un incremento delle vendite di Thriller del 473% rispetto alla settimana precedente; ma questo non è che un secondo esempio della inarrestabile macchina da soldi. Terzo notevole e pur banale esempio: alla festa di beneficenza regala una sua giacca. Spilorcio? La giacca viene battuta all’asta subito dopo per 25.000 euro: hai voglia a sfamare gente. Con la mia giacca potevano a stento coprire un disgraziato freddoloso, sempre che la taglia fosse sufficiente…

Ora notate questa differenza: se chiedo a un amico una giacca in prestito, si tratta di un semplice favore; se la chiedo a Michael Jackson, la cosa si fa paradossale: è sì una giacca, ma vale pure 50 milioni; inoltre per lui questo è nulla, mentre io mi ci potrei comprare parecchie cose che sognavo. Estinguere il mio mutuo. Estinguere un mutuo con una giacca, che assurdità! Allora, che vorrà dire giacca per Michael Jackson? Cioè: qual è per lui il significato vero di “giacca”, quello vissuto, globale – non le due righe sul dizionario, uguali per tutti. Certo il suo significato di “giacca” sarà molto diverso da ciò che la parola vuol dire per me o per voi. “Giacca di Michael Jackson” dovrebbe essere una voce a sé. Potete estendere il dubbio oltre l’esempio, e riconoscere che allora anche “forchetta di Michael Jackson” o “gabinetto di Michael Jackson” sono voci sé; allora anche “mano di Michael Jackson”, “acqua calda di Michael Jackson”, “curiosità di Michael Jackson”, “dolore di Michael Jackson”, “padre di Michael Jackson”, “donna di Michael Jackson”, “figlio di Michael Jackson”, e così via. Sono tutte definizioni a sé! E quanto sono lontane da quelle generiche che più o meno conosciamo? Non si sa.
Insomma, cosa condivide quest’uomo con noialtri? I soldi e ogni cosa che si possa comprare, praticamente tutto, per lui devono avere un significato, un aspetto, un sapore, lontani anni luce dalla nostra minuscola immaginazione. Ed ecco che Michael ci appare improvvisamente collocato in un mondo a noi del tutto estraneo: il suo mondo, un mondo in cui a 44 anni quell’uomo è saldamente e definitivamente intrappolato. Suppongo che nonostante il mio potente fantasticare non ne coglierò mai le sensazioni. Posso solo dire che, in qualche senso, è un mondo incolmabile.

Il mondo intorno a lui mi appare come una particolare traduzione del capitalismo, una sua variante estrema, in unica copia, che come tutte le iperboli mostra ciò che nella vita comune non si vede più per troppa abitudine. Il rapporto bidirezionale tra individuo e società, arte e soldi, desiderio e identificazione, qui è esploso in una visione vertiginosa che a tratti può apparire un incubo e a tratti una delizia infinita. Il documentario apre squarci su questo delizioso incubo, ma la sua essenza ci resta comunque oscura. Eppure nelle immagini di Michael che parla c’è qualcosa che sembra restare fuori da questa sostanziale oscurità solipsistica, e venirmi incontro con un linguaggio che intendo: l’infanzia tritata, le violenze del padre, l’immersione nell’anima degli altri, la noia, il bisogno d’amore. Queste esperienze, con i sentimenti primari ad esse legati, mi raggiungono senza mediazione. Nel suo stare al mondo come essere umano, Michael Jackson è evidentemente accanto a me: guardo i suoi grandi occhi vuoti mentre racconta, vedo i piccoli moti delle mani (le “mani di Michael Jackson”), e in quell’istante sento che non faccio nessuna fatica a capire chi è.

Tra i sentimenti profondi, ineffabili, soggettivi, e l’universo uniforme degli oggetti acquistabili, si apre una zona intermedia dove si accampa il dilemma degli esseri umani. Gli esseri umani stanno un po’ di là e un po’ di qua, hanno sentimenti ma si possono anche comprare. Come gestirli, allora? Che ruolo hanno le persone per Michael Jackson? Potrei scommettere che questo, in sintesi, è il suo dilemma principale. Le statue i pupazzoni e i videogiochi che si porta appresso di qua e di là nelle suite d’albergo, i quadri, i ritratti e tutto il corredo di idoli di cui si circonda in permanenza sembrano assecondare un solo desiderio: approssimare un mondo sociale depurato da quel dilemma. Un mondo che si può a occhio e croce figurare come libero da malevoli e rompicoglioni. Purtroppo un mondo del genere non può che essere artificiale: quello reale, lo sappiamo, è fatto altrimenti. Gli uomini cresciuti hanno una vaga idea di se stessi: figuriamoci se possono avere la minima idea del mondo in cui vive Michael Jackson. Potrebbero salvarsi con l’empatia, con il respiro infantile; ma purtroppo e perlappunto, “infantile” per gli adulti è un’accusa infamante, invece di essere un complimento. Gli adulti della nostra società sono infinitamente distanti dai bambini che furono, sebbene questi continuino a vivere nell’oscurità dentro di loro, tirandone a volte i fili del corpo e del cuore di sorpresa, gettandoli in quelle incontrollabili e spaventose sequenze di comportamento in cui si perde la faccia. I nostri adulti – di cui sono ottimi esempi sia il finto moralista Martin Bashir che i responsabili educatori di Studio Aperto, peraltro aspetti di una stessa cosa – sono sommersi dalle verità indotte; per sopravvivere alla meno peggio nel mare tempestoso degli umori e delle emozioni si aggiogano appena possibile al carro delle istituzioni, si calano in fretta dentro le norme e gli abiti come in ciambelle di salvataggio. E’ dura, lo so; per molti non si dà neanche uno spiraglio di luce tra una famiglia e l’altra, tra un gruppo e il seguente, non si socchiude nemmeno per un secondo la porta sulla possibilità di chiedersi chi sei e che vuoi. Tuttavia, resta il fatto che per questi “adulti” è del tutto impossibile capire Michael Jackson. Possono provare a trovargli un posto nei loro scaffali, stirandolo da una parte e schiacciandolo dall’altra, e visto che oramai non c’entra in alcun modo appallottolarlo e buttarlo nel cestino dell’estraneo, dove c’è sempre posto e ci deve essere sempre posto, anche per una cosa ingombrante come lui. «Michael Jackson è un disturbato». Ma davvero. E in base a quale assoluto concetto si pretende che anche se niente nella tua vita è simile alla media dovresti lo stesso assomigliare alla media? Quel giudizio non ci porta da nessuna parte, è solo una manifestazione di potere (lo storico potere di ordine psicologico con cui i buoni costituiti da sempre definiscono ed emarginano i diversi e i folli) che cerca di confinare un altro potere meno comune.

Sembra tanto difficile allora capire come Michael si possa trovare a suo agio soprattutto con i bambini? Essi hanno tutto e solo quello che serve a condividere qualcosa con lui. Essi sono gli abitanti ideali di quella zona intermedia che non è soldi e non è gente (adulta). Credo che frequentare bambini dia a Michael un sollievo esistenziale la cui misura è tanto difficile da immaginare quanto lo è il resto del suo mondo. Quelli sono i suoi veri simili. Ma sono anche i nostri simili. Chi ha dimenticato questo, naturalmente avrà bisogno di ricorrere a pederastia e altre deviazioni per spiegare la preferenza. Bashir infatti glielo chiede dieci volte: «Sì, ma resta il problema, come mai un uomo di 44 frequenta dei bambini…» ecc. L’insistenza di questa stupida domanda denuncia prima di tutto un difetto del petulante, non uno dell’accusato; ahimé Michael non è stato abbastanza cazzuto da dirglielo chiaro e tondo. Dirgli che noi siamo tutti bambini. Siamo neonati, bambini, adolescenti, maturi, attempati, vecchi: tutto insieme. Le età non passano: si compongono. Guai a disconoscere questa realtà: è la peggiore rimozione possibile. È come prendere l’autostrada bendati. In effetti, un sacco di incidenti accadono.

Ho detto all’inizio che è stato realmente un video shock per me, ma per ragioni diverse. Eccole.
Sono addolorato perché Michael Jackson ha 20 anni più di allora, e io pure; ma nel frattempo la sua crescita come essere umano non è avvenuta in una forma rassicurante sullo stato e le prospettive del consorzio umano a cui appartengo.
Sono trafitto quando confessa di non voler crescere e io scopro di non poterlo biasimare.
Sono travolto dallo spettacolo di un uomo triste, dalla sproporzione tra i suoi superpoteri e i suoi vuoti irredenti, dalla sua ormai incolmabile distanza dalla gente comune («I love you Michael!!!» urla la ragazza; «Yes I love you too» risponde lui macchinalmente).
Sono malinconico per il suo bisogno d’amore, il suo essenziale bisogno d’amore: perché è il nostro, riflesso in uno specchio tanto enorme che facciamo fatica, ancora una volta, a riconoscerlo.