Quale lotta?

(manifesto, politica)

Roberto critica qui il mio precedente post. E’ un caso che mi interessa molto e per questo voglio dedicarvi qualche riga e intenzione di più di un semplice controcommento.

Non capisco l’insistenza sulla lotta di classe se non come cerimonia in onore di caduti. La lotta deve essere contro le ingiustizie, di ogni tipo. Contro il sopruso del forte sul debole. Non deve essere per forza “di classe” per avere senso; anzi adesso direi: al contrario! Il sopruso del forte sul debole oggi prende forme diverse e va perseguito altrimenti. Altro che bandiera bianca. Se fossi uno da bandiera bianca non starei qui a scrivere. La lotta c’è eccome, sempre, solo che non è più “di classe”. La resistenza c’è, ma non è quella partigiana di fineguerra. Quelle versioni non sono più applicabili al presente. Se ci si intestardisce a farlo è per nostalgia e perché non vengono in mente altre idee. La cosa più facile è attenersi ai modelli prefabbricati autorevoli, come fanno del resto tutte le grandi religioni. Però dietro a questa nostalgica ostinazione inevitabilmente si perde l’orientamento e ci si insabbia in un deserto di rumore bianco. Proprio come ha fatto la sinistra alle ultime elezioni: una prova davvero schiacciante del talento nel restare indietro. Eccola, la bandiera bianca: io la vedo in mano al vecchio comunista, coll’altro pugno ben alzato: di lui resta più che altro un’icona impietosamente sfruttata, come ogni altra passione vera o finta, dallo show system che la converte in un’attrazione da museo delle cere, buona per una mezz’oretta di documentario tra i leoni marini, Benjamin Franklin, la danza delle api.

Il guaio del vecchio comunista è che egli preferisce di gran lunga il proprio famoso orgoglio all’aprire gli occhi sul presente e accorgersi della cosa essenziale: questo secolo e mezzo che ci separa da Marx ha cambiato di poco i nostri geni, mentre ha invece enormemente trasformato la società, le abitudini, quindi i valori e la cultura tutta. Basti ricordare una piccola cosa, fra tante: l’economia pianificata dei rivoluzionari mirava allo sfruttamento delle risorse naturali quanto quella liberista dei capitalisti; tutti, da una parte e dall’altra, sognavano il Progresso e se ne fottevano beatamente della finitezza delle risorse, dell’accumulo degli scarti, delle reali esigenze degli esseri umani. Oggi sappiamo che non si può più abbandonarsi come ragazzini spensierati ad architettare coi pupazzetti futuri di totale fiction: sappiamo che la termodinamica c’entra, che gli errori nei piani sono frequentissimi e si pagano pesantemente. Ditemi se è poco.

E poi, parliamo dell’operaio. Qui il punto non è la semplice differenziazione della specie, come la vedrebbe un entomologo. Il punto è la metamorfosi interiore. Forse che fare l’operaio oggi implichi essere obiettore di condizionamento televisivo o di condizionamento d’aria? o una moderazione nell’uso dell’automobile? o la sobrietà nello stile di vita per evitare l’indebitamento a mezzo carte di credito? o un puntiglio per il consumo critico e l’equità sociale? Figuriamoci. La lotta di classe non c’è più perché lo sfruttato desidera diventare come il suo padrone e spesso – come nel caso di molti colletti bianchi – nell’attesa della beata speranza si sente anche fiero di servirlo. Il desiderio delle masse – un pulviscolo di individui senza più movente collettivo e senza più tradizioni collanti – non è che l’aspirazione a un cosiddetto benessere definito da altri modelli artificiali, disumani: è questo bacino enorme di consumo il vero alimento del capitalismo, un consumo che la politica non mette mai in discussione. Da cui il capitalismo si fa ormai invisibile, come dice giustamente Vicente Verdù, un capitalismo sepolto sotto la pelle della gente, dentro ogni cosa, ogni casa. Insomma: i problemi sono altrove e sarebbe bene cercarli lì, non dov’erano secoli fa. Altrimenti non si riesce a dare una mano al debole, e il forte continua a farsi gli affari suoi nei modi che gli offre la tecnica e la legge non impedisce.

Proposte concrete? Presto detto, eccone una manciata come mi vengono in mente. Moratoria della pubblicità, prima di tutto, e ridefinizione di spazi intoccabili, inviolabili, sacri. Identificazione e protezione assoluta dei beni comuni non privatizzabili. Internalizzazione delle diseconomie negative: i costi veri delle attività devono emergere ed essere tutti in bilancio, pagati dai responsabili, non indirettamente da noi. Abbandono del ridicolo PIL e sua sostituzione con parametri verosimili. Ridefinizione del libero mercato, moderando la mano invisibile coi suoi gravi limiti ormai noti. Moratoria del lucro: le pretese di un singolo soggetto possono essere eccessive e incompatibili con la vita, bisogna riconoscere l’esistenza dell’eccesso almeno come principio e dimenticare l’irrealistico primato assoluto del capitale. Vincoli stretti ai superstipendi. Persone fisiche e persone giuridiche a opposti del diametro davanti alla legge. Freno a mano totale alla derivazione finanziaria. Niente inciuci tra pubblico e privato. Niente diritti senza responsabilità. Rinnovare i metodi di controllo incrociato fra i poteri dello Stato, ispirandosi a schemi evolutivi come ad esempio la rete di controllo della trascrizione genica. Ci vuole educazione ai commons, alla relazione, all’arte e alla memoria, nei primi gradi delle scuole, a scapito delle nozioni; educazione alla decrescita nel seguito.

Potrei continuare. Non troppo difficile a dirsi. Ma a farsi… eh, a farsi è quasi impensabile al momento. Però si intravedono spiragli, ora sì, finalmente. Ci sono già molti che ne parlano e ci provano (cfr. qui Elezioni antiuomo). Certo se menti e mani buone non perdessero tempo appresso ai fantasmi del passato si potrebbe fare molto di più. In ogni caso, una via sicura c’è: sono amaramente certo che le catastrofi piegheranno i testardi di ogni specie, e purtroppo con loro anche tutti gli altri.