Compensare gli autori

(miti d'oggi)

Purtroppo bisogna riconoscere che nel corso di questi ultimi anni, complici le tecnologie di condivisione, ci siamo un bel po’ abituati a guardare e ascoltare gratis, aggirando gli apparati di retribuzione degli autori. Ma di chi è la colpa? Davvero è tutta di noi utenti finali?

Nel modello tradizionale, tra le grandi masse di pubblico e le schiere degli autori non c’è un rapporto economico diretto. Siamo mediati da grandi soggetti come le televisioni, le case discografiche, le case editrici, le telco, la SIAE, ecc. Più degli autori/artisti sono questi intermediari a far la voce grossa contro la pirateria, e quando lo fanno si vestono da paladini della proprietà intellettuale, puntando sempre sullo stesso argomento morale: chi non paga è un ladro perché ruba soldi agli autori e li impoverisce.

Si tratta di un’equazione troppo semplice. Gli intermediari tra noi e gli autori sono enormi società portatrici di imponenti interessi economici e di invincibili inerzie, abbarbicati a radici vetuste. Il problema che rappresentano è duplice: da una parte l’immane consumo di risorse sottratte al sistema complessivo per alimentare il proprio funzionamento; dall’altra quella che potremmo definire una diseducazione del pubblico, caratteristica del resto tipica di tutto il capitalismo industriale.

Non di rado questi grandi intermediari vecchio stampo sono i primi responsabili dell’impoverimento degli autori, se non altro della maggioranza di essi. Ricordiamo la triste vicenda dell’IMAIE: il cosiddetto ente “morale” che doveva garantire l’equo compenso a interpreti e musicisti fu chiuso dal Prefetto di Roma nel 2009 quando, come ultima goccia, si scoprirono 118 milioni incassati e non redistribuiti agli aventi diritto. Quanto alla SIAE, il regolamento prescrive che i diritti non distribuiti per errori di compilazione dei borderò o perché sotto una soglia minima vengano suddivisi tra pochi assi pigliatutto. I libri? Del prezzo di copertina arrivano all’autore pochi punti percentuali. E via dicendo. Pur di non scalfire questi meccanismi pietrosi, volti al mantenimento delle strutture di potere e non alla tutela degli autori, si arriva a imposizioni rozze come la tassa preventiva sulle memorie di massa – la cosiddetta copia privata, aumentata di recente – legittimata dalla presunzione che un supporto digitale presto o tardi ospiterà qualche opera coperta da diritto d’autore.

La diseducazione ha luogo quando gli intermediari opacizzano il rapporto tra pubblico e autori per poter perpetuare la loro rendita di posizione, un profitto che si moltiplica solo per transazioni oscure e con il divide et impera. Ma la conseguenza è che il pubblico viene allontanato dagli autori anche psicologicamente. Sicché quando gli intermediari cercano di far leva sull’equazione morale sopra detta non ottengono risultati perché essi stessi le hanno tolto ogni forza contraddicendola con il loro comportamento interessato, un po’ come accade ai responsabili marketing che stimolano nel pubblico il ricambio continuo di passioncelle commerciali salvo poi lamentarsi che non esiste più fedeltà al prodotto. Nelle tariffe che vediamo ci viene nascosto l’uso che di quei soldi viene fatto, ed impossibile sapere quanto ne arrivi agli autori, agli artisti, ai creativi, agli inventori. Anzi non abbiamo idea se qualcosa arrivi.

Ora immaginiamo uno scenario alternativo. Uno scenario in cui gli utenti dei contenuti digitali vedono dentro quello che pagano. Prendiamo ad esempio la bolletta Sky e facciamola diventare simile a quella delle aziende energetiche, in cui i costi sono dettagliati per componenti: materie prime, rete, servizi, distribuzione, imposte. Nel nostro caso al posto dell’energia abbiamo il lavoro creativo, perciò esplicitiamo i compensi autoriali separandoli dai costi di struttura.

bolletta-sky-artistiQuale sarebbe l’effetto? Per capirlo possiamo rifarci alla critica di Peter Sloterdijk al prelievo fiscale. Le modalità di tassazione a noi note sono intrinsecamente inique, arretrate, ancora prossime all’imposizione forzosa se non al furto: i cittadini sono costretti a tirare fuori i loro soldi alla cieca, senza sapere dove finiscono, cosa ne viene fatto, con la sensazione costante di convivere con uno sconosciuto importuno che chissà come ha il diritto di metterci le mani in tasca. Nessuno può essere contento di pagare le tasse sotto questa luce, tanto meno se poi vede i soldi pubblici gettati in opere insensate e il necessario insoddisfatto. Se invece fossimo posti davanti a una connessione evidente e diretta tra i soldi che diamo e gli usi che ne vengono fatti, se avessimo questo livello di informazione, allora le tasse prenderebbero tutt’altro aspetto, l’aspetto di una partecipazione personale alla vita collettiva, nel bene e nel male. Ciò che le tasse dovrebbero essere, dopotutto. Arrivarci però pretenderebbe una portentosa trasparenza nella gestione della cosa pubblica, da cui siamo lontani specialmente nei Paesi dove è ancora vivissimo il culto del sotterfugio, della via traversa e della mazzetta, gemello della burocrazia.

Dal rapporto tra pubblico e Stato, riportiamo ora il discorso al rapporto tra pubblico e autori/artisti. Se noi utenti sapessimo che i soldi che paghiamo a un certo intermediario tra noi e gli autori vengono usati per compensare in proporzioni chiare e distinte l’organizzazione e il lavoro creativo, percepiremmo nitidamente e pragmaticamente il principio sbandierato, quello del giusto compenso agli inventori dei beni intellettuali di cui godiamo, e saremmo invogliati a fare la nostra parte ricompensando la creatività. Come minimo non avremmo giustificazioni per non farlo. Anche perché la scomposizione rende i costi più sopportabili. In questo senso l’App Store e Google Play hanno un modello di business molto limpido, benché sia rigido e possa pesare troppo sui primi ricavi: 70% per gli autori e 30% per la struttura. Così anche nei servizi di self-publishing come Amazon Kindle Direct Publishing (70/30) o Lulu (80/20). Queste piattaforme sono intermediari di nuova generazione che trattano software (libri compresi) e collegano gli autori diretti con gli acquirenti, quindi tecnicamente è tutto più facile; ma il punto principale è il modello che impiegano, un modello nato nel mondo presente e adatto al mondo presente. Per gli intermediari del buon vecchio mondo passato, con le loro pensantissime, costosissime e stratificate organizzazioni, attraversando le quali ogni transazione viene rosicchiata da gerarchie di prelievi, un open accounting del genere sollecita una autentica rivoluzione: un cambio di paradigma mentale, nuove forme di contabilità, una trasparenza che costringe a una onestà quasi impensabile. Probabilmente una ricostruzione dalle fondamenta, come per una casa troppo malandata.

Proprio la difficoltà di immaginare una simile conversione ci fa capire quanto sia specioso il problema della pirateria come viene formulato oggi in quella semplice accusa al pubblico. Dati i numerosi intermediari interessati e i veli che ciascuno frappone, è facile retribuire gli autori il meno possibile, o con criteri arbitrari e diseguali, o perfino sfruttarli, addossando a chi consuma contenuti a sbafo tutta la responsabilità nei confronti degli autori. E per gli utenti è facile liquidare il problema con qualche vaghissimo senso di colpa. Ma se gli intermediari per primi mettessero in chiaro cosa fanno loro per gli autori, per tutti gli autori, sarebbe un’altra storia. Con molta meno ipocrisia.