Cosa manca al sogno d’Europa
(cultura)
L’originale dell’intervento a Cent’anni d’Europa, tenuto al Salone del Libro di Torino il 9 maggio 2014.
Nel 1966 Gregory Bateson tenne una conferenza intitolata Da Versailles alla cibernetica – «i due eventi storici più importanti del XX secolo» – in cui definiva il Trattato di Versailles «un giro di boa nell’ambito degli atteggiamenti morali». Perché? Perché fu un tradimento di guerra perpetrato parlando della pace, al di fuori del contesto di guerra, su un piano logico dove le bassezze e gli inganni della guerra non dovrebbero esistere. Non c’era più il vecchio mondo in cui «si credeva ancora alla santità dei trattati» (Stefan Zweig). Qualunque parola poteva essere smentita e violata. Niente più dignità, niente più fede. Quel tradimento provocò lo scadimento morale della Germania, dice Bateson, e lo scadimento morale di tutti.
Si disse che Versailles fu un armistizio di vent’anni, invece che una pace, perché nel suo vaso c’erano già anche i semi della seconda guerra mondiale, e non solo nel gravissimo tradimento. Uno di questi semi maligni era la Società delle Nazioni, cioè l’illusione che se gli Stati avessero realizzato ciascuno il proprio ideale di nazione o di religione la pace tra gli Stati ne sarebbe discesa come logica conseguenza. Miraggio che nasce da una illusoria idea di ragione che ci portiamo appresso dall’Illuminismo, se non da Platone: Ragione con la maiuscola, divinità, oggetto di fede, quindi irrazionale; infatti quella ragione logica, assoluta, universale, incorporea, è una entità fantastica che nella realtà non esiste. Le teorie più nefaste dell’età moderna sono applicazioni di questa illusione: ad esempio l’economia neoclassica, che sta distruggendo il pianeta partendo dall’Occidente. Oppure quella fissa dei progressisti che se spieghi alla gente, dati alla mano, come vive male, ipso facto decideranno di cambiare strada. Gli esseri umani non funzionano così.
Ernesto Rossi e Altiero Spinelli nel 1941 sono in confino a Ventotene con centinaia di altri oppositori del fascismo, e sono d’accordo che le organizzazioni come la Società delle Nazioni non possono tutelare il diritto internazionale: non hanno potere militare cogente, e soprattutto conservano la pericolosa sovranità assoluta degli Stati. Ricorda Spinelli: «L’osservazione fredda e distaccata del corso degli avvenimenti mi mostrava che non c’era altro potere fuorchè quello dello Stato nazionale, e che questo, con le sue esigenze e la sua logica, era nella nostra epoca in Europa, salvo pochissime eccezioni, il fondamentale nemico della libertà». Lui e Rossi allora facevano parte di un manipolo di utopisti indipendenti diffuso tra vari partiti. Ognuno pensava con la propria testa, e tutti avevano uno stesso pensiero: unire l’Europa in una federazione, come proclamano nel Manifesto che scrivono insieme, in cui ogni Stato-nazione cedesse parte del suo potere verso l’alto e parte verso il basso. È un’intuizione che anticipa di molto il futuro: riconosce che in un organismo omeostatico, come i viventi e le società di viventi, nessun pezzo è del tutto indipendente ma è sempre legato agli altri e funzionale al fine incorporato nel sistema intero (il concetto base della cibernetica), mentre dall’altra anticipa il “glocal”, lo stile di vita al contempo globale per i problemi planetari e locale per ritrovare la misura d’uomo che è sempre più necessaria dopo i forti squilibri della globalizzazione commerciale e digitale. Gli utopisti sono i più realisti, a volte.
Le parole di Spinelli, Rossi, Schuman, Monnet, De Gasperi, Einaudi, Adenauer, Sforza, così intense e vere, esprimono con forza un sogno divenuto necessario dopo le due guerre e tutto quell’orrore. Ormai l’Europa unita era una di quelle «idee che hanno la stessa forza della fame», come avrebbe detto Artaud. Nella sua storica dichiarazione del 9 maggio 1950, Schuman aveva annunciato che l’Europa si sarebbe fatta con «realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto»; e tale diede il via, mettendo in comune risorse che erano state motivo di divisione e conflitto: carbone e acciaio di Francia e Germania. Un capolavoro di empatia pianificata su grande scala che sortì l’effetto sperato. Dopodiché l’unione proseguì così: energia, mercato comune, frontiere aperte, moneta, burocrazia… e quelle parole e il loro sogno sono rimasti indietro. Mancano ancora i popoli, le genti, le culture, le emozioni, la pancia. Prendete il motto europeo: uniti nella diversità. Cosa vuol dire? La diversità di solito divide, non unisce; ci vuole una forte corrente emotiva o un intelletto fuori dal comune perché la diversità unisca, e di diversità nell’Europa dei 28 ce n’è in abbondanza. Quel motto non è una soluzione, è una contraddizione in termini, un dilemma che viene posto ai nostri cuori, forse con una punta di compiacimento intellettuale. Purtroppo delle istituzioni lontane, degli insiemi di nozioni e di regole, dei bilanci di convenienze, non possono creare magicamente sentimenti e senso di appartenenza, senza il quale non c’è Europa.
Il problema è che sono passati troppi anni da quando qualcuno cominciò a cercare la strada verso casa Europa, aggirandosi tra cumuli di giovani cadaveri in divisa, tra palle di cannone che ancora fischiavano attorno. Anni sufficienti a dimenticare l’orrore e la commozione. E intanto il mondo si è trasformato sotto i nostri piedi. Le parole hanno mutato o perso senso, a forza di pronunciarle. Anche le parole dei padri fondatori, quelle belle e sante parole allora così sentite. Ma ora ci sono fatti nuovi che possono ricostituire il loro vigore.
Sapevate che se noi – dico noi persone comuni, nella media – osserviamo un’altra persona subire una puntura alla mano con un ago, la nostra corteccia sensomotoria invia un segnale alla nostra mano per ritrarla, come se sentissimo quello che sente l’altro? Sapevate che nel nostro cervello – dico di noi persone comuni – c’è un sistema di neuroni detti specchio che si attivano identicamente quando vediamo qualcuno fare un’azione finalizzata come quando eseguiamo noi la stessa azione, una parte di noi dove si annulla ogni distinzione tra prima, seconda e terza persona? Sapevate che noi persone comuni – non degli esseri speciali – possediamo un circuito di una decina di aree cerebrali interconnesse che genera l’empatia, la capacità di avvertire lo stato d’animo degli altri incorporandolo in noi, e agire considerando il loro punto di vista insieme al nostro quasi come fossimo una cosa sola? Tutto ciò avviene automaticamente, al di sotto della coscienza, a monte delle parole che arrivano molto più tardi per tentare di spiegare cosa è accaduto. Quello che è accaduto a Emilio Lussu in trincea, quando vede l’austriaco sull’altro fronte accendersi una sigaretta, e quel gesto così familiare crea immediatamente un legame fisico profondo con lui tanto che è costretto, senza sapere come, a rilasciare il grilletto pronto a far fuoco. Quello che è accaduto a Giuseppe Ungaretti, quando dice di aver scritto lettere d’amore con la congestione delle mani del compagno massacrato penetrata nel proprio silenzio. L’empatia è normale, è una questione organica. La non-empatia è patologia, disfunzione, disabilità.
Qualcuno ora dirà: figurati, lo sapevamo già. Ebbene, se lo sapevamo, come siamo riusciti a credere, per secoli, che fosse l’egoismo a muovere il mondo, organizzando la nostra vita economica in conformità con questa finzione? Ve lo dirò: ci siamo riusciti perché l’empatia si può spegnere temporaneamente anche in chi ce l’ha. Si può spegnere in tanti modi: con le metafore seducenti, con le teorie protette dall’autorità e dalle formule matematiche che dànno al sapere un aspetto scientifico, con le favolette morali, con le pubblicità ingannevoli ripetute all’infinito, con l’addestramento militare, con le catene di montaggio che frammentano il male fatto agli altri in tanti piccoli compiti banali. È molto più facile accettare l’amaro pane quotidiano dell’egoismo fidando nella superna “mano invisibile” sopra di noi, così come è molto più facile accettare un licenziamento di massa nei termini di una riduzione del coefficiente EPL raccomandato dall’OCSE. Contro questo interminabile abuso, sapere come siamo fatti davvero – non come pensavano Platone o Cartesio o Jevons – è un rivoluzionario disinganno. All’inizio del ‘600 si sapeva che ci si ammalava e le ferite si infettavano, ma solo dopo che Leeuwenhoek vide i batteri si cominciò a capire di che si trattava e dove cercare la guarigione. Oggi apprendere dalla neurobiologia come i nostri cervelli producono la conoscenza, i sentimenti e l’azione è rivoluzionario per la società e per la politica, e ci dice dove cercare la guarigione. Bentham sosteneva che «è vano parlare dell’interesse della comunità senza comprendere quale sia l’interesse dell’individuo»; duecento anni dopo possiamo essere più onesti di lui e aggiungere che è micidiale parlare dell’interesse dell’individuo senza sapere come è fatto. Per questo Antonio Damasio dice che «il successo o il fallimento dell’umanità dipende dal modo in cui le istituzioni incaricate di governare la vita pubblica includono nelle proprie politiche una visione corretta dell’uomo».
Prima di tutto questa visione corretta ci fa rovesciare la fasulla egemonia dell’egoismo e riabilitare l’umano sociale, ristabilendo la centralità dell’empatia, «solvente universale» come la definisce Simon Baron-Cohen nel fondamentale La scienza del male. Poi ci aiuta a capire quali nostri impulsi arcaici, come le reazioni aggressive alla diversità, che erano utili agli ominidi, nel mondo odierno al contrario sono inappropriati e controproducenti, perché conducono a pregiudizi, razzismo, conflitti perfettamente vani. Possiamo diventarne coscienti e imparare a ignorarli.
“Uniti nella diversità” potremo essere, sì, se l’Europa sarà avanguardia e levatrice di questa visione corretta dell’uomo. Così il sogno di pace e di unione dei padri fondatori, che è quello della stragrande maggioranza di noi, persone comuni, sarà realizzato. Ancora queste sono le idee che hanno la stessa forza della fame e ci tengono svegli.
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