Il Natale non banale

(Fari nel buio)

«Si dice che i religiosi sono come gli aerei, fanno notizia solo quando cadono. Ma io vi dico che ce sono tanti che volano, solo che nessuno prega per loro». Così papa Francesco, un paio di giorni fa.

Mi ha colpito subito la semplicità assoluta dell’espressione, che espone compiutamente le difficoltà di una storia universale attraverso il contrasto di due sole frasi, pochissime parole sorrette dall’arco di una metafora perfetta.

Molte volte ho notato questa semplicità nei discorsi di Bergoglio. La sua eloquenza scarna e precisa sarebbe certamente piaciuta a Pasolini, ateo profondamente religioso quale sono anche io, perché appare chiaramente come parte della sua missione di riportare la Chiesa verso lo splendore muto del cristianesimo originario, fatto di carità e solidarietà umana, spogliandola dei suoi orpelli concettuali e materiali un velo alla volta.

La sobrietà del linguaggio non è solo l’antidoto al «terrorismo delle chiacchiere», grande male terminale dell’occidente, da cui egli aveva messo in guardia qualche giorno prima. La sobrietà del linguaggio fa corpo unico con la moralità dei comportamenti. Le parole e i concetti scollati dai nostri limiti pratici sono una finzione fatale che equivale esattamente alla finanza scollegata da valori materiali sottostanti che ha condotto agli effetti leva delle banche di investimento, esposte per somme pari a decine di volte il loro capitale, o ai derivati tossici, composti da frullati di crediti disparati dal rischio non calcolabile, e all’analoga infinita carta senza sostanza che sta annegando il mondo, vomitata dalla fanfara di una lunga schiera di illusionisti di professione.

Il discorso di Bergoglio è prima di tutto un buon esempio per la riconciliazione di parole e fatti. L’intensità che vi sento dentro è simile a quella della poesia autentica, intensità pura ricercata con pazienza che dà un simile conforto. Ed è la stessa che provo leggendo Zavattini descrivere la missione del neorealismo. «La presa di possesso da parte della nostra coscienza della correlatività di tutto ciò che esiste, e perciò di una decisiva e costante presenza degli uomini (di qualunque uomo) in tutto ciò che accade, obbliga a una resa di conti continua ora per ora, persona per persona». In questa immagine, sempre più attuale e tangibile via via che la visibilità globale della rete fra gli eventi ci rende consapevoli dei legami fra tutti gli esseri e le cose, e degli effetti collaterali a lungo raggio e termine delle nostre azioni, c’è per intero il senso della coincidenza tra sobrietà e moralità. «In sostanza oggi non si tratta più di far diventare “realtà” (far apparire vere, reali) le cose immaginate», dice Zavattini, «ma di fare diventare significative al massimo le cose quali sono, raccontate quasi da sole». Non si tratta di annullare lo spettacolo, ma di cambiargli prospettiva facendolo nascere da uno sguardo diverso: «Per spettacolo naturalmente bisogna decidersi a intendere non l’eccezionale, ma il normale; cioè lo stupore deve derivare nell’uomo dalla conoscenza e dalla scoperta dell’importanza di tutto ciò che ha sotto gli occhi ogni giorno, e di cui non si era mai accorto». È lo sguardo di Cechov, altro sublime faro nell’oscurità in cui si vive. Le vere “storie di successo” non sono quelle dei grandi numeri privi di umanità che ci vengono costantemente strombazzate, ma quelle delle persone normali come noi nella lotta quotidiana che ben conosciamo. «Si può quindi affermare che il cinema è morale solo quando affronta in tal modo la realtà». E poi, come corollario: «Più un’arte è morale, meno costa. La immoralità sociale del cinema, deriva dal suo costo». La grandezza del pensiero di Zavattini sta nel fatto che ciò che qui dice del cinema può estendersi a tutte le imprese umane. Ecco, ad esempio, la intrinseca immoralità delle famose Grandi Opere: la loro automatica capacità di generare corruzione è infatti proporzionale alla loro folle dismisura, ispirata a teorie insensate.

Non diversamente dal Papa, da Pasolini, da Cechov e dai poeti, Zavattini invita tutti noi, non solo i cineasti, a fare attenzione a ogni singolo momento dell’esistenza, bello o brutto che sia; cosa che costringe a una misura nei comportamenti, perché per l’attenzione ci vuole concentrazione, continuità, poche distrazioni. L’attenzione agli altri costringe a una misura nelle relazioni, perché non si può fare realmente attenzione a più di una manciata di persone. L’attenzione al valore delle persone costringe a una misura nel profitto, perché impedisce di spremerle trattandole come fossero oggetti. Come la mancanza di attenzione ha una prole deforme, dall’attenzione deriva tutto il meglio. «Il banale sparisce proprio per la carica di responsabilità di cui è carico ogni momento. Ogni momento è infinitamente ricco. Il banale non esiste».

Questo è allora il mio augurio oggi: un Natale e un anno nuovo non banali, pieni di attenzione nuova.